Sino ad oggi la maggioranza delle imprese ha adottato sistemi di gestione del personale di visione Tayloriana, chiedendo al lavoratore di limitarsi ad eseguire i compiti a lui assegnati, nei tempi e nei modi indicati dai vertici aziendali. In questa ottica la dimensione umana del lavoratore era, ed è, trascurata. L’unica cosa importante risulta riuscire a ridurre i tempi di lavoro, ottimizzandone l’efficienza e riducendone i costi (poche persone che fanno molto lavoro), aumentando la produttività dei lavoratori. Se anche proviamo a non considerare i costi sanitari ed assistenziali a carico dello Stato che questo comporta, causato da infortuni sul lavoro, sintomi di stress e di burnout, difficoltà di gestione delle esigenze familiare che richiedono maggior presenza di strutture pubbliche per assistenza ed accudimento di bambini ed anziani (che in epoche precedenti erano accudite dai membri della famiglia, ora troppo impegnati in termini di tempo e stress per riuscire a farlo), e non consideriamo nemmeno il disagio esistenziale che causa in molti individui facendone aumentare il consumo di droghe, medicinali e alcol, consideriamo almeno la situazione attuale di scarso consumo interno di beni a causa di un basso potere d’acquisto da parte della maggioranza dei lavoratori italiani e chiediamoci se la produttività, intesa come quantità di prodotto realizzata per ogni unità di lavoro o capitale, sia ancora un valido obiettivo primario delle aziende o se sia giunto il momento di ampliare la visione. Se nergie, risorse e denari vengono utilizzati solo per incrementare la quantità di merce prodotta, in una fase storica in cui i “consumatori” di molte nazioni occidentali vedono ridotta la propria capacità di acquisto è ovvio che gran parte di queste energie impiegate risultano sprecate, a meno che i beni prodotti non vengano esportati in altri mercati in fase di espansione, ma naturalmente i prezzi devono essere competitivi con quei mercati medesimi dove il costo del lavoro e i diritti ad esso connessi sono molto inferiori. Alcune aziende oggi sono in grado di competere spostando attività ed interessi all’estero ma questo ha causato un impoverimento di grosse porzioni di territorio e di popolazioni a vantaggio di profitti di poche aziende gestite da pochi azionisti che sfruttano occasioni e condizioni sociali, politiche ed economiche di altri paesi. Questo, in un regime di libero mercato è giusto e viene incentivato. Potremo anche aggiungere che se prima l’occidente giocava a fare il cow boy ora gli tocca il ruolo dell’indiano, anche se è un ruolo scomodo. Tuttavia c’è da chiedersi perchè mai poi si chieda l’intervento dello stato a sostegno delle attività economiche se il mercato è libero? O è libero o è assistito. Se le aziende riconoscono che la relazione Stato – impresa è una relazione inscindibile dettata da leggi fiscali, politiche del lavoro e politiche economiche, devono altresì riconoscere che la relazione è bidirezionale: lo Stato crea opportunità per le imprese e per il mercato del lavoro in genere e l’impresa crea ricchezza su un territorio. In che modo un’impresa crea ricchezza? Non solo producendo beni destinati al consumo fine a se stesso, dato che la produzione richiede consumo di energia, che a sua volta richiede consumo di petrolio e carboni fossili (il cui prezzo sarà destinato ad aumentare sempre più in quanto bene esauribile) che creano inquinamento, che a loro volta determinano problemi di salute, che a loro volta aumentano le spese dello stato etc. Una impresa crea ricchezza se investe, ma se investe non per aumentare la produzione con gli esiti appena visti, ma per cambiare il tipo di produzione ed il tipo di gestione: nella ricerca di nuove idee, nuove tecnologie più “verdi” che riducano la catena di distruttività che impoverisce il territorio in cui è inserita nuove modalità di gestione del lavoro volte a ridurre i costi indiretti del lavoro ( malattia, infortuni, licenziamenti, cause per mobbing, formazione del personale sostitutivo etc). Nuove idee imprenditoriali e commerciali ad impatto ambientale e sociale ridotto significano nuovi posti di lavoro in settori ancora poco esplorati per la realizzazione di prodotti innovativi. Vendere, vendere, vendere non può più essere un valido motto nel terzo millennio. Sino ad oggi gli interessi del singolo (e per singolo intendo poche grosse imprese) sono prevalsi sull’interesse della collettività e questa è una delle principali cause di impoverimento di alcune fasce di popolazione mondiale a danno di altre.
Se l’obiettivo di tutti è avere più denaro ricordiamoci che possiamo immaginare il denaro come una merce: disponibile solo in una certa quantità ed è chiaro che, in tale ottica, per avere una maggior quantità di questa “merce” devo fare in modo di sottrarla ad altri, cercando di stipulare contratti vantaggiosi per me, non condividendo con i dipendenti notizie riguardo la situazione patrimoniale dell’azienda onde evitare fastidiose rivendicazioni, creando prodotti di breve durata etc. Perchè il vero obiettivo che si mira a realizzare ancora oggi è vendere per accumulare. Un accumulare fine a sé stesso che non crea nuove opportunità, nuove idee, nuove prospettive di vita; che non crea ben-essere.
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