E’ da alcuni anni che il nostro paese, e non solo, sta vivendo una profonda crisi economica e finanziaria che ha causato ripercussioni in ogni strato sociale ed in ogni settore lavorativo. Tutto ciò ha creato non solo sconcerto, con il conseguente disperato tentativo di riprendere in mano le redini della situazione, ma ha generato per lo più una assurda guerra tra concittadini impegnati in ruoli diversi. Lavoratori contro imprenditori, imprenditori contro lavoratori e sindacati, i sindacati contro le imprese e contro altri sindacati, mentre le istituzioni si dibattono tra altalenanti ed incerte azioni a favore delle imprese o dei lavoratori ma per lo più “stanno a guardare”, come le stelle nel celeberrimo romanzo di A.J. Cronin.
Purtroppo, a mio avviso, in Italia, persiste ancora un modello dualistico, e le ultime elezioni ne sono forse la conferma; un modello dove sembra che A debba escludere B e viceversa con il rischio di restare ciechi difronte alla possibilità di aprirsi alla ricerca di un alternativo punto C. Forse dovremmo provare a smetterla di considerarci nemici e vedere il nostro interlocutore come un idiota conservatore, schiavista od opportunista ma provare a confrontarci in modo sincero sulle rispettive difficoltà e disponibilità a collaborare per provare a crescere insieme in un progetto comune chiamato “impresa”. Perchè l’impresa è un progetto comune in cui ognuno svolge ruoli diversi e investe energie e capacità diverse. I lavoratori non hanno dove svolgere la loro funzione senza un imprenditore che offra loro un posto fisico di lavoro ed un progetto lavorativo a cui partecipare nè, per contro, le idee degli imprenditori troverebbero concretezza e successo senza la compartecipazione dei lavoratori. Queste due figure si trovano ad essere antagoniste pur essendo, per natura, compensatorie, solo fintanto che intenzionate a mancarsi di reciproco riconoscimento e disponibilità al dialogo nel tentativo di rimanere arroccati nei comportamenti sino ad oggi acquisiti. Il termine cinese che indica la parola crisi indica al contempo il significato di “pericolo” e di “opportunità, punto cruciale, di svolta”. Per citare un esempio concreto: la Germania ha saputo riprendersi dalla crisi attuando una flessibilità interna e non esterna adottata invece in Italia. Questo ha permesso la conservazione dei posti di lavoro anche se con orari ridotti e conseguente riduzione di stipendio ed ha investito in percorsi formativi per riqualificare la manodopera favorendo così, nel momento di ripresa dei mercati, una capacità maggiore di soddisfare le richieste del mercato a livello di qualità. In Italia si è preferito ricorrere ad una flessibilità esterna che favorisse l’uscita e l’ingresso dei lavoratori nelle aziende, in base alle necessità dell’azienda soltanto, attraverso il ricorso a contratti atipici che alimentano il precariato ed il senso di inutilità del proprio lavoro connesso all’impossibilità di crescere in termini di competenza lavorativa. Questo comportamento ha impoverito da subito i lavoratori, e nel lungo periodo ha impoverito le imprese e di conseguenza lo stato nel suo insieme. Sono sempre più convinta che occorra subito uscire da questi schemi obsoleti rappresentanti da apparenti contrapposizioni di interessi. L’interesse è uno solo, il ben-essere, un termine che implica più cose: la capacità di rispondere ai bisogni primari di vita, la possibilità di fare un qualcosa che dia soddisfazione ed in cui riversare le proprie competenze e capacità. Il fine non è il denaro-profitto questo semmai è il mezzo per raggiungerlo; nulla di più e nulla di meno. A questo punto la domanda da porre a imprese, lavoratori, sindacati e Stato è: quali sono i limiti e gli ostacoli per una nuova collaborazione tra le parti?
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